Sono davvero tanti i prodotti che offre la Valnerina. Ampia scelta tra i formaggi, tra cui il pecorino di Norcia, i formaggi al tartufo nero o quelli allo zafferano di Cascia, ma anche le ricotte (salate o fresche) e le caciotte. Ottimo da solo o abbinato con un formaggio, il miele millefiori è il frutto di un’antica tradizione di apicoltura alimentata nei monasteri, nei conventi e nei castelli. I salumi poi fanno parte della storia millenaria della Valnerina, in particolare di Norcia, che ha visto il suo famoso prosciutto conquistare il marchio IGP. Ma i gustosi prodotti suini sono tutti da provare: la collarina (il tipico salame umbro), il barbozzo (guanciale), la lonza, la coppa, la ventresca, le salsicce.
La coltivazione dei legumi riveste moltissima importanza nell'economia contadina della Valnerina. Gli amanti della cucina rustica possono godere dei piatti tipici a base di cicerchia, il caratteristico legume simile ai piselli che, insieme alla roveja e al farro, dà vita a prelibate zuppe o minestre. Il farro di Monteleone di Spoleto ha ottenuto il marchio DOP che attesta il gusto specifico di elevata qualità. Tra le lenticchie invece ha un posto d’onore quella IGP di Castelluccio di Norcia. Ed infine va ricordato che i boschi della Valnerina custodiscono delle vere perle del gusto: oltre i funghi, soprattutto porcini, si raccolgono il tartufo nero pregiato di Norcia, lo scorzone (o tartufo estivo) e il tartufo nero invernale.
Di seguito uno spazio dedicato ai principali prodotti del territorio della Valnerina.IL FARRO DI MONTELEONE
E' il più antico dei cereali ancora coltivati in quanto se ne ritrovano le tracce fin dall'8000 a.C. In Egitto, e poi tra i popoli greci e romani, il farro era alla base dell'alimentazione e rappresentava un'offerta preziosa alle divinità. Tra le varie specie di farro esistenti in natura, quella che si coltiva in Valnerina è la più pregiata: è il "triticum durum dicoccum" vestito. Ottimo e salutare alimento, ricco di minerali, fibre e vitamine di grande importanza per l'uomo, il farro può essere ridotto in granuli, come il pane grattugiato, ed in farina. E' una pianta rustica che cresce bene in montagna su terreni non particolarmente fertili, ma che non conoscono l'uso di diserbanti e antiparassitari. Caduta in disuso dopo l'introduzione del grano, la cultura del farro si è mantenuta nelle zone difficili dove non si poteva produrre altro e come alimento per il bestiame. Solo recentemente le qualità di questo cereale sono state riscoperte ed il farro ha riacquistato il suo rango: dal 2008 le produzioni di farro di Monteleone di Spoleto sono tutelate dalla denominazione DOP (Denominazione di Origine Protetta). A Monteleone la semina avviene in primavera ed è l’unica specie di farro che non produce farina bianca, ma dello stesso colore della cariosside cioè color tabacco chiaro. Le condizioni pedoclimatiche della zona di produzione, con terreni che impediscono il ristagno nelle stagioni umide, contribuiscono a definire le caratteristiche specifiche del Farro di Monteleone di Spoleto quali la spiga piatta, corta, affusolata - con ariste non troppo lunghe e leggermente divaricate - e la cariosside di colore marrone chiaro ambrato, che si presenta vitrea e compatta con residui farinosi alla frattura.
LA LENTICCHIA DI CASTELLUCCIO
Tipica coltura delle aree svantaggiate, resiste bene a condizioni climatiche avverse ed il suo corto ciclo biologico gli permette di crescere in zone semi-aride. Anche la lenticchia, come il farro ed altre poche specie, era conosciuta sin dagli inizi della civiltà agricola. E' un ottimo alimento, ricco di sali minerali e di proteine. In Valnerina, questa leguminose si coltiva in diverse piccole aree distribuite sul territorio, dove per le particolari condizioni del clima e del suolo si ottiene un prodotto di altissima qualità. Il seme è molto piccolo, verde e non viene trattato chimicamente. La lenticchia di Castelluccio di Norcia è la più pregiata: si coltiva nei piani a 1400 metri e, grazie alle condizioni climatiche piuttosto rigide in cui nasce, è l’unico legume che non ha bisogno di essere trattato per la conservazione perché non è attaccata dal tonchio, insetto le cui larve si nutrono dei legumi. La lenticchia di Castelluccio possiede delle notevoli qualità nutritive: tutte le sue proteine, vitamine, fibre e sali minerali a rendono ottima per chi necessita di una dieta ricca di ferro, potassio e fosforo, povera di grassi e molto nutritiva. Un’altra caratteristica importante della lenticchia di Castelluccio è la buccia sottile e tenera che consente direttamente la cottura senza ammollo, riducendo notevolmente tempi di preparazione. La fioritura della lenticchia rende l'altopiano di Castelluccio, nel periodo di giugno, di incomparabile bellezza con i suoi mille colori.
IL TARTUFO NERO
Non si coltiva e non si può riprodurre: il fascino del tartufo è nel suo mistero. Figlio della terra e del buio, il tartufo cresce vicino alle radici degli alberi. I Babilonesi lo ricercavano tra le sabbie dei deserti orientali, Greci e Romani ne furono grandi ammiratori al punto da attribuirgli qualità divine: lo credevano generato dal fulmine scagliato dal re degli dei in prossimità di una quercia e proprio il legame con Giove generò la convinzione che il tartufo possedesse qualità afrodisiache. L'Umbria è terra di tartufi da sempre: gli antichi Umbri chiamavano "tartùfro" quel "sasso profumato" e ne introdussero l'uso e la conoscenza in tutta la penisola. L'entusiasmo del mondo antico verso il tartufo si affievolì nel Medioevo, periodo in cui si credeva contenesse veleni mortali o che fosse il cibo delle streghe. In epoca rinascimentale, a seguito dell'affermarsi della cultura del gusto e dell'arte culinaria, il tartufo fu rivalutato sino a divenire protagonista d'eccellenza nella cucina signorile. La notorietà del tartufo non conobbe arresti e con il trascorrere del tempo consolidò la fama di principe della tavola sino a trasformarsi in un fenomeno di costume: basti pensare che nel XVIII secolo la ricerca del tartufo divenne un divertimento di corte, dando con tutta probabilità origine all'usanza di avvalersi per la ricerca di un animale elegante come il cane. L'Umbria, con il suo dolce paesaggio collinare di cui il bosco costituisce una parte predominante, è un'immensa tartufaia: questa regione contrappone alla fine sapidità del rugoso Tartufo nero, diffuso soprattutto in Valnerina, l'inconfondibile acutezza di profumi dell'aristocratico tartufo bianco e la curiosa fragranza dello Scorzone estivo che si aggiunge a tutta una serie di tartufi di "media stagione". La raccolta avviene solo in determinati periodi dell'anno, cioè a "spore mature", con l'ausilio dei cani per evitare un inutile zappamento del terreno che comprometterebbe il prezioso "micelio". Il corpo fruttifero deve essere estratto in perfette condizioni di maturazione: l'esemplare acerbo manca totalmente di profumo. Il tartufo nero pregiato (Tuber Melanosporum Vittadini) è la qualità prevalente. Matura da novembre a marzo e la sua grandezza può variare da quella di una noce per arrivare a una mela o un'arancia, la scorza è nerastra e la polpa di colore nero-violaceo, attraversata da sottili vene di colore bianco che ai lati prendono colorazioni bruno-rosseggianti. E' presente ad un'altitudine dai 250-300 metri sino ai 900-1000.
IL PROSCIUTTO DI NORCIA
Dici Umbria e pensi al prosciutto e alle norcinerie, l’arte antica e nobile di lavorare la carne di suino: un’arte diventata tradizione che ha reso Norcia famosa in tutto il mondo per il suo prosciutto onorato con il marchio IGP. L’abilità nella lavorazione e nella conservazione delle carni del maiale è sancita dall’estensione di significato del termine "norcino", che è passato ad indicare universalmente colui che lavora e commercia con le carni del maiale. Secondo una leggenda la nascita del mestiere si fa ricondurre alla dinastia dei Flavi, imperatori romani che avevano grandi possedimenti nella zona: dopo la conquista di Gerusalemme nel 70 d.c. un piccolo numero di ebrei sarebbe stato infatti crudelmente deportato in Umbria con il compito di curare l’allevamento dei suini, in virtù del divieto religioso per questo popolo di nutrirsi della carne di maiale. Leggenda a parte, è certo che a Norcia la lavorazione delle carni del maiale è al tempo stesso una passione, un’arte ed un rito. Esistono due tipologie di Prosciutto di Norcia. Il primo, chiamato "tipico di Norcia", viene stagionato per un massimo di un anno mentre il secondo, "l'antico di Norcia", viene stagionato per ben due anni. Il "tipico" è il classico prosciutto "salato o di montagna", noto per il suo sapore intenso e le cui fette sottili sono affettate rigorosamente a mano; l'"antico" rappresenta invece il punto più alto della norcineria umbra per la sua lavorazione rigorosamente artigianale e la lenta stagionatura all'aria secca di montagna. La preparazione dei prosciutti è dettata da un disciplinare di produzione estremamente rigido: il coscio di maiale viene rifilato con forma "a goccia", salato a secco con sale grosso e con l'aggiunta di pepe ed aglio schiacciato. Dopo il periodo di salatura di 30-40 giorni, si procede al lavaggio con acqua tiepida e poi all'asciugatura, per poi andare alla fase di stagionatura per sette/otto mesi, al temine della quale il prosciutto assume un aspetto consistente, con poco grasso ed un lieve sapore d'aglio. La sua qualità, oltre che dal tempo di stagionatura, dipende dalla dimensione del suino alla macellazione e dalla sua alimentazione nella fase di ingrasso, che influenza la consistenza delle carni, la loro sapidità e la quantità di venature di grasso nel magro.
LO ZAFFERANO DI CASCIA
La spezia più preziosa al mondo nasce da un delicato fiore di colore viola con tre lunghi stami rosso acceso, che in autunno caratterizza i paesaggi della Valnerina. La pianta dello zafferano, "Crocus Sativus", originaria dell'Asia Minore, è stata impiegata fin dall'antichità per uso tintorio, farmacologico, cosmetico e gastronomico. Le sue proprietà erano note agli Egizi e nella Bibbia lo zafferano viene nominato nel Cantico dei Cantici; conosciuto anche in India, dove tuttora viene usato dai monaci buddisti per tingere le vesti, fu diffuso in occidente dagli Arabi. La parola Zafferano, dall’arabo “zaffaran”, vuol dire splendore del sole di cui evoca calore, energia e benessere. Impiegato nei secoli per ottenere il colore giallo nella preparazione dei colori per gli affreschi, per i dipinti dei codici miniati o per tingere vesti e tessuti, lo zafferano è anche utilizzato nella cosmesi o come base per la preparazione di unguenti disinfiammanti e cicatrizzanti. Ma il consumo più diffuso è sicuramente quello gastronomico: nell'Italia centrale viene usato, oltre che per i risotti, per condire carni di capretto, piccione, pollo, pesci quali lucci e tinche, minestre, frittate, formaggi, biscotti, frittelle ed è accompagnato a vegetali quali farro, ceci, piselli, zucche, fave, rape, funghi. In Umbria la coltivazione ed il commercio dello zafferano ha costituito per secoli un’attività economica di primaria importanza, come dimostrato dal fatto che le pene previste nello Statuto di Cascia, redatto in epoca comunale, punivano con sanzioni pecuniarie altissime i casi di furto o di danneggiamento delle coltivazioni di zafferano, spezia preziosa al punto di venir utilizzata come moneta e costituire parte della dote che le monache dovevano recare per entrare nel Monastero di Santa Rita. I fiori dello zafferano vengono raccolti manualmente alla fine di ottobre, e solo nelle prime ore del mattino poiché la luce intensa potrebbe alterare le caratteristiche organolettiche degli stimmi: questi, di colore rosso mattone intenso, una volta essiccati possono essere commercializzati solo se rigorosamente integri, a garanzia di autenticità del prodotto.
IL PECORINO DELLA VALNERINA
Gli invitanti e ricchi pascoli delle montagne della Valnerina hanno favorito lo sviluppo della pastorizia che è da secoli una delle risorse principali del territorio. In inverno i pastori emigravano con i loro greggi fino alle pianure del Lazio e della Maremma per poi ritornare a primavera inoltrata: testimonianze di queste transumanze sono alcuni percorsi ancora visibili nello splendido sentiero che va da Poggiodomo a Scheggino. Sugli altopiani e nelle vallate si trovano ricchi prati e coltivazioni di mais e fieno che hanno reso possibili lo sviluppo dell’allevamento di bovini da latte. Il formaggio - meglio detto il "cacio" - più conosciuto della zona è il Pecorino della Valnerina per produrre il quale il latte viene filtrato e messo a scaldare sul caldaio a fuoco diretto finché raggiunge una temperatura di circa 90° gradi; dopodiché si lascia freddare fino ai 35° gradi circa e si aggiunge il caglio di agnello o di capra; infine, trascorsi 10 minuti, si procede alla rottura della "cagliata" che viene poi versata in appositi stampi. Le forme pesano generalmente 3 kg circa e, prima di essere messe a stagionare, vengono pressate a mano per far uscire il siero e ricoperte di sale (salatura a secco); dopo qualche giorno le forme vengono lavate e disposte a stagionare in celle frigorifere o locali freddi. Oltre al pecorino il carrello dei formaggi della zona comprende ottime produzioni ottenute con latte di pecora, di bovini e di capra, come la ricotta salata, la caciotta ed il noto formaggio al tartufo nero di Norcia. La maggior parte dei formaggi prodotti in Valnerina sono ottenuti con latte crudo cioè con un latte che non ha subito pastorizzazioni e che, per tale motivo, trasferisce nel formaggio tutte le qualità organolettiche derivate dai fiori e dalle erbe dei pascoli oltre che dal caglio animale o vegetale. "Il formaggio a latte crudo è molto più di un cibo meraviglioso, è l'espressione autentica di una delle migliori tradizioni gastronomiche. E' un'arte e uno stile di vita. E' una cultura, un patrimonio e un paesaggio amato". (Slow food)
IL MIELE DELLA VALNERINA
Per secoli il miele ha rappresentato l'unico alimento zuccherino concentrato disponibile; le prime tracce di arnie costruite dall'uomo risalgono infatti al VI millennio circa. In Valnerina l'apicoltura è un'antica tradizione e ha avuto una vita parallela a quella dei monasteri e dei castelli. Al dolce prodotto delle api è legato uno degli episodi più famosi della vita di Santa Rita ancora bambina: un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Il miele è prodotto dall'ape sulla base di sostanze zuccherine che essa raccoglie in natura: le principali fonti di approvvigionamento sono il nettare, che è prodotto dalle piante da fiori (angiosperme), e la melata, che è un derivato della linfa degli alberi, prodotta da alcuni insetti succhiatori. Per le piante il nettare serve ad attirare vari insetti impollinatori, allo scopo di assicurare la fecondazione dei fiori. A seconda della loro anatomia, ed in particolare della lunghezza della proboscide ("ligula"), le api domestiche possono raccogliere il nettare solo da alcuni fiori, che sono detti appunto "melliferi". La composizione dei nettari varia secondo le piante che li producono: sono comunque tutti composti principalmente da glucidi, come saccarosio, glucosio, fruttosio e acqua. Il miele prodotto in Valnerina è un millefiori con preponderanza di fiori di leguminose, in particolare di lupinella dal sapore delicato che si scioglie in bocca con dolcezza; la ricchezza dei prati della Valnerina garantisce alle varie produzioni di miele aromi e sapori differenti a seconda del luogo di produzione.